Evans, inno alla sofferenza | Pirelli

Evans, inno alla sofferenza

Show more images

La strada si arrampica sui tornanti del Passo Coe che portano a Folgaria. Cadel Evans ha il volto sconvolto, gli occhi opachi, le gambe di legno. Il suo fisico non ce la fa più. Ha sbagliato l'alimentazione e, come succede in questi casi, non riesce più ad andare avanti. È il 30 maggio del 2002 e Cadel Evans indossa una bellissima maglia rosa. Ce l'ha perché il suo capitano alla Mapei, Stefano Garzelli, è stato escluso dalla corsa per positività al Probenicid, perché nelle urine di Gilberto Simoni sono state trovate tracce di cocaina, perché Francesco Casagrande ha pensato bene di far cadere per terra John Freddy Garcia in uno sprint per il Gran Premio della Montagna. Ce l'ha, soprattutto, perché il giorno prima è arrivato davanti a tutti a Corvara in Badia. Due anni prima Cadel Evans correva su una mountain bike con cui aveva vinto due classifiche finali di Coppa del Mondo, nel 1998 e nel 1999, adesso è il primo australiano leader del Giro d'Italia. È partito la mattina del 30 maggio con concrete possibilità di vincere quel Giro, lui che va forte a cronometro e in salita tiene duro, ma non aveva fatto i conti col peggior nemico dei ciclisti: la crisi di fame.

PZeroVeloPerché partire da una sconfitta per raccontare la storia di un campione vincente? Perché esistono ritratti che trovano la loro forma migliore nella sofferenza, personaggi che entrano nel mito per via della loro vulnerabilità. La storia di Cadel Evans nel ciclismo su strada comincia da lì, da quel Giro d'Italia, prima di una lunga serie di sconfitte che precederanno la vittoria del Mondiale di Mendrisio nel 2009 e del Tour de France nel 2011. Quel Giro, pur finendo male, è la dimostrazione di un talento che vale più di una scommessa. Così la T-Mobile decide di puntare su di lui. Il 2003 dovrebbe essere l'anno della consacrazione, diventa l'anno della sfortuna. Tre volte per terra, tre volte fratturato, sempre alla clavicola, la stessa clavicola, la sinistra. Succede prima in aprile all'Amstel Gold Race, e salta la Liegi-Bastogne-Liegi, poi alla Rund um die Hainleiti, e perde il suo primo Tour de France, infine alla Vuelta. Il destino sembra voler male a questo ragazzo australiano dagli occhi azzurri. Nel 2004 non fa il Tour e clamorosamente l'Australia lo lascia fuori dalle Olimpiadi di Atene. Ma il talento e la tenacia non sono sbiaditi. Nel 2006 vince il Giro di Romandia, e sembra potersi sbloccare. Poi ci si rimette la sfortuna. Nel 2007 perde il Tour per 23 secondi, chiudendo alle spalle di Alberto Contador, nel 2008 gliene mancano 58 per far meglio di Carlos Sastre.

Maledetta la Spagna, maledetto il Tour. Però in quei due anni Cadel comincia a scrollarsi di dosso quella brutta etichetta del perdente di successo. Il primo lo chiude in cima alla classifica del Pro Tour anche grazie alla squalifica per doping di Danilo Di Luca. Il secondo lo vede vestire per la prima volta la maglia gialla: cinque giorni da leader, prima di chiudere al secondo posto, ancora una volta con una spalla infortunata per colpa di una caduta alla nona tappa. In un'intervista a GQ del 2010, Evans racchiuse tutta la sua filosofia in una frase: «Io, per principio, non mi ritiro. Io, sulla bici, piuttosto ci muoio. Se parto, voglio sempre arrivare. Meglio primo. Ma piuttosto ultimo». Ultimo non ci arriva praticamente mai, perché è troppo forte, persino quando è acciaccato. E quando nel 2011 sfila in maglia gialla sugli Champs-Élysées, alzando al cielo il suo flute di champagne, è come se il ciclismo intero brindasse con lui. Ha 34 anni e ha sofferto da morire, rintuzzando gli attacchi degli avversari più forti di lui in salita e strappando la vittoria a Andy Schleck, otto anni più giovane di lui.

Marco Pastonesi incarna questo sentimento comune sulla Gazzetta dello Sport: «Sapete perché la gente ama lo sport? Perché nello sport c'è giustizia. Perché nello sport, prima o poi, trionfa la giustizia. Perché nello sport, prima o poi, i conti tornano, arrivano i nostri, vincono i buoni. Cadel Evans vince il Tour de France. E con lui vince il ciclismo, e con lui vince lo sport, e con lui vince la giustizia». Il cerchio si è chiuso. O quasi. Manca ancora un piccolo tassello per completare il mosaico. Nel 2013, a 36 anni, arriva terzo al Giro d'Italia vinto da Vincenzo Nibali, diventando il primo australiano a salire sul podio in tutti e tre i grandi giri ciclistici. «Onesto: l'unico corridore degli ultimi 25 anni per il quale metterei la mano nel fuoco. Poi un vero atleta e un vero uomo: di valori, principi, forza fisica e morale». Così Giorgio Squinzi, patron della Mapei che lo tenne a battesimo in quello sfortunatissimo Giro del 2002, lo descrive in un'intervista rilasciata alla Gazzetta nel 2015, giorno del suo ritiro. Onesto, tenace, coraggioso e con due occhi sinceri. Vincente persino nella sconfitta. Questo è Cadel Evans.