La sua storia non è comune, a ben vedere. Ji ha scelto, per un cinese, lo sport più strano di tutti o quasi. Ha scelto di fare il ciclista professionista partendo da un Paese dove in bici si va tanto, ma mica per costruirci una carriera sopra. E infatti Ji correva a piedi, ma c’era un problema: Harbin, la sua città, all’estremo nordest della Cina, è famosa più per le sculture di ghiaccio che per i podisti. Con la Siberia a due passi, d’inverno le temperature scendono fino a 20 gradi sotto zero. E così a un certo punto Ji si è messo a correre, ma in bici. E al coperto, sopra il parquet di un velodromo. Poi il grande salto, dalla Cina all’Europa, nel 2006. E il balzo nel giro che conta nel 2007, con l’ingresso nella squadra olandese Skil-Shimano.
Classe ’87, Ji è stato il primo cinese a correre e soprattutto completare una grande corsa a tappe, la Vuelta a España 2012. La chiuse 175esimo in classifica. Cioè ultimo, a quattro ore, 32 minuti e 35 secondi di distanza dal vincitore Alberto Contador. Ji è stato pure il primo cinese a disputare un Giro d’Italia, nel 2013, ma quella volta non riuscì ad arrivare in fondo alle tre settimane. La gloria per il corridore della Giant tornò nel 2014, quando divenne il primo cinese anche a correre sulle strade più prestigiose: quelle del Tour de France. Tenne duro nonostante un infortunio al ginocchio, e arrivò fino all’Arc du Triomphe e ai Campi Elisi. Posizione finale: 164. Ultimo. Oltre sei ore dopo Nibali, che quell’anno conquistava la maglia gialla. Insomma, un predestinato.
Scorrendo l’albo d’oro al contrario del Giro troviamo altre storie come quella di Coledan e Ji. Simili e tutte diverse. Nel 2014 l’ultimo posto toccò a Jetse Bol, un passistone olandese che sa pure sprintare. In salita no, soffre e parecchio. Lui aveva iniziato con delle lame sotto i piedi, nel pattinaggio di velocità. Nel 2013 l’onore toccò a Davide Appollonio, uno dei rari ciclisti molisani che si siano mai visti in gruppo.
La «maglia nera» del Giro 2012 fu invece uno spagnolo, anzi un basco di Bilbao: Miguel Minguez. Altro specialista delle fughe, altro abbonato alle posizioni nelle retrovie, altra storia finita male. Nel 2012 la sua squadra – e che squadra: i naranja dell’Euskaltel-Euskadi – chiuse i battenti. Con pochi risultati da mettere nel curriculum, a lui non è riuscito di trovare un altro contratto. E oggi ha 28 anni, ma i colleghi li guarda in tv. Chi ancora continua con passione, e a 31 anni corre anche al Giro d’Italia 2016, è Jos Van Emden. Altro olandese, altro ottimo passista e pessimo scalatore, è stato la maglia nera del 2011. Ma di lui ci si ricorda soprattutto perché tre anni dopo – nel 2014 – scelse di fare una proposta di matrimonio in piena cronoscalata. Si fermò, fece la scena di rito, incassò il fatidico «sì» e poi riprese a pedalare.
Alla fine la vita dell’operaio del pedale è fatta così: che in bicicletta fai tutto, che la bici è parte di te, che in bici ci vai e ci fatichi perché è quello che sai fare. È una vita in cui hai imparato a mettere da parte i sogni che avevi da bambino e le vittorie che avevi accumulato da ragazzo. Fai semplicemente il tuo mestiere. Perché a parte pochi elementi per ogni team – due, tre al massimo – in una corsa come il Giro si corre solo per la squadra. Il tuo risultato individuale conta solo se puoi lottare per la maglia rosa o per un piazzamento dignitoso in classifica. Oppure se sei un velocista o comunque uno svelto abbastanza da poter vincere una tappa. In tutti gli altri casi – e sono il 90 per cento dei casi – i tuoi compiti da pedalatore di professione sono molto precisi. È il ciclismo moderno: non c’è nulla da improvvisare. Ti puoi scordare pure l’idea di entrare in una fuga, provare a stupire tutti, vincere una tappa a sorpresa.