L'epica delle Fiandre | Pirelli

L'epica delle Fiandre

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"Chi può avere avuto mai l'idea che questo sia un posto buono per pedalare?". La domanda, non priva di fondamento, se la poneva una minuta ciclista norvegese, lottando con il fiatone mentre spingeva sui pedali negli ultimi metri del Taaienberg. Il fiato sarebbe mancato pure a me, ma se anche se lo avessi avuto, mica avrei saputo cosa dirle. O forse sì. 

PZeroVeloI muri delle Fiandre non sono certo un terreno a misura di bicicletta, e per questo attraggono con una forza magnetica i ciclisti da sempre, aspiranti eroi di uno sport che ha nella sfida la sua raison d'être. Una perenne sfida alla gravità che ha persino creato una figura nuova nell'enciclopedia sociale fiamminga: il "flandrien". In origine erano i contadini fiamminghi, che scendevano nelle pianure francesi per trascorrere le giornate a raccogliere canna da zucchero. Poveri, chini e tenaci, proprio come i ciclisti di fine '800. Fu il giornalista Karel Van Wynendaele, fondatore del quotidiano Sportwereld e ideatore del Giro delle Fiandre, a vedere nelle sagome dei ciclisti la stessa silouhette dei contadini, e a battezzarli con lo stesso nome, semplicemente flandrien.

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Di epico i flandrien hanno poco, il loro è uno sforzo quotidiano. Faticano e imprecano, ma poi in cima ci arrivano tutti. Qualcuno a piedi, su certe pendenze è quasi la norma, ma nessuno si arrende a metà, non avrebbe senso. I muri delle Fiandre difatti sono cortissimi, brevi cicatrici rettilinee che si arrampicano sui fianchi di colline alte poche decine di metri. In cima spesso non c'è nemmeno un panorama da ammirare, solo pianura battuta dal vento. A tracciarli furono proprio gli eredi dei flandrien originari, che in cima alle colline possedevano campi, fienili e stalle. I contadini moderni invece li maledicono quei muri, hanno costruito strade più veloci asfaltando le vecchie tracce o solcando nuovi versanti delle colline, ma per qualche giorno all'anno tornano alle vecchie postazioni, celebrano un'ingegneria fatta di semplicità e abnegazione. Sono i giorni delle classiche del Nord, dalla festa del Giro delle Fiandre in giù, passando per semiclassiche e corse minori, un'intera geografia di ordini d'arrivo che si dipana tra queste stradine in un fazzoletto di pochi chilometri.

"Non saprei spiegare cosa c'entri il Koppenberg con una corsa ciclistica. Anzichè una gara, è una lotteria dove solo i primi cinque hanno delle possibilità. Cosa abbiamo fatto di male per essere mandati a pedalare in questo inferno?" (Bernard Hinault)

A guardare la planimetria del Giro delle Fiandre, c'è da farsi venire il mal di testa. Un continuo cambio di direzione. Anelli quasi concentrici avviluppano la cittadina di Oudenaarde per andare a prendere il maggior numero di muri possibile. Non c'è collina nelle campagne fiamminghe che non possa esibire orgogliosamente un "berg" per ogni suo versante. Il trittico che sorge alle porte di Oudenaarde è quello che decide il Giro delle Fiandre, il più battuto dagli amatori. Alla vigilia del Ronde si affollano in oltre 15000 per la prova amatoriale, dal semiprofessionista in bici fiammante al più sgangherato cicloamatore in sella al più classico "cancello".

Il Koppenberg è giusto all'uscita del paese, e se lo si va a vedere dal basso fa girare la testa, sembra una piattaforma di salto con gli sci, solo che è in pavé e al pavé deve persino il suo nome. Deriva dall'abbreviazione di "kinderkoppen", letterlamente "muro delle teste", teste di bambino, soprannome con cui sono affettuosamente chiamate le pietre del selciato. 62 metri di dislivello in 600 metri, con punte al 22%. Una lunga virgola di roccia, tra gli alberi, che non lascia nemmeno vedere il cielo in fondo. Sul Koppenberg si sono registrate le scene più inverosimili della corsa, è il passaggio dove ancora oggi si vedono corridori professionisti spingere la propria bici a piedi.

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Dal Koppenberg all'abbinata Oude-Kwaremont/Paterberg ci sono pochi chilometri di pedalata. L'Oude Kwaremont non è infatti particolarmente ostico: è lungo (2200 metri), il pavé è sconnesso e le pendenze non sono mai estreme. Lo sforzo tuttavia avviene prima, nella volata che lo precede. Ai muri si accede infatti da svolte risicate, stradine di campagna a una corsia con curve a 90°, restare imbottigliati nel gruppo significa perdere diversi secondi. "Sul Kwaremont si svolgono due corse, una per scalarlo e l'altra per raggiungerlo, e tra le due questa è la peggiore", parole di Peter van Petegem, uno dei più puri flandrien della nostra epoca. Il chilometro prima del muro è l'università del "limare", specialità antica del ciclismo che ancora mette in difficoltà alcuni grandi campioni. Lavorare di lima, appiattire il gruppo metro dopo metro, superare nel mezzo o a bordo strada, guadagnare posizioni per farsi trovare in testa al momento giusto. Detto così sembra semplice, farlo a oltre 40 chilometri orari in una strada disconnessa è un'altra storia. L'Oude Kwaremont, dove Oude significa vecchio, è l'erede del muro storico del Fiandre: quando l'ascesa alla collina di Kwaremont fu asfaltata per farne una strada provinciale, infatti, l'organizzazione ripiegò sull'adiacente strada vecchia, quella dove dal 1974 il pavè si mischia ai fiumi di birra nella festa più sfacciata dell'anno. 

Dall'altro lato della collina si alza l'ultimo grido di pietra, il Paterberg: 380 metri di lunghezza, di cui 100 costantemente al 20%. La leggenda vuole che fu proprio un contadino della zona a tracciarne il solco, invidioso dei vicini del Koppenberg che potevano godere della corsa sotto casa ogni anno. Leggenda, sì, ma non troppo distante dal vero. Quando il municipio locale decise che quello sterrato fosse ormai obsoleto e stabilì di asfaltarlo, ci pensarono alcuni cittadini a proporre il pavè al posto dell'asfalto, per i minori costi di manutenzione, ma soprattutto per la speranza di poter entrare in gara. Missione compiuta. Da allora il Paterberg è un passaggio irrinunciabile, il suo segmento Strava è stato percorso da 32280 persone: il più veloce è un amatore spagnolo, che l'ha scalato in 52". Gli ultimi della graduatoria sono saliti tutti a piedi

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I muri delle Fiandre sono tanti, e ognuno ha le proprie peculiarità, ma Il Muro è uno solo. Si dice che la cittadina di Geraardsbergen sia nota per le sue tre M: Mattentart, il dolce locale; Manneken Pis, la fontana gemella di quella di Bruxelles, e ovviamente Muur. Le indicazioni stradali lo chiamano semplicemente così, senza aggiungere altro. Solo il tratto finale è definito Kapelmuur, in onore alla chiesetta che sorge in cima, una cappella che sta al ciclismo come San Pietro al cattolicesimo. Non c'è luogo nel ciclismo che sappia mischiare sacro e profano allo stesso modo: dal fiume che scorre ai suoi piedi, il Dender, un nome che sa già di riti arcaici, alla cima della collina, dove i celti celebravano l'equinozio. Dicono gli abitanti del posto che dopo il crollo di quello di Berlino questo sia il Muro più famoso al mondo. Lo dice anche la storia del Giro delle Fiandre, che da questa stagione lo ha reintrodotto in corsa dopo 5 anni di assenza, e benchè fosse piazzato a cento chilometri dal traguardo, è sul Muur che è nato il forcing della Quick-Step, da cui è partito lo splendido volo solitario di Philippe Gilbert.  

Il Muur è lo scenario per ogni tipo di impresa, grandi e piccole, non solo quelle dei flandrien o dei cicloamatori più eroici: da lassù ogni anno parte, ad esempio, la Transcontinental Race, la folle corsa in solitaria di 4000 chilometri attraverso l'Europa. Con 100 metri di dislivello in un chilometro di pavè, nemmeno il Muur riesce lontanamente ad avvicinare lo status di una montagna, eppure, a differenza di tutti gli altri, da dietro la cappella si apre il panorama che non ti aspetti: un paesaggio ondulato, dolce, puntellato di cicatrici di pavè, di altri muri da sfidare.