Rispetto alle corse dei primordi, che si esaurivano in un giorno ed erano un purissimo esercizio muscolare, le corse a tappe introdussero nel ciclismo nuovi e accattivanti agenti narrativi: la tattica e l’astuzia, la versatilità e il fondo. Senza gli intermediari che erano i cronisti, educatori e celebranti insieme, il ciclismo dei grandi giri non avrebbe avuto ragione di nascere. “Il ruolo del linguaggio è immenso”, scrisse Roland Barthes a proposito del Tour de France. “Il linguaggio dà all’avvenimento, inafferrabile perché incessantemente dissolto in una durata, la maggiorazione epica che consente di solidificarlo”.
Non sorprende il fatto che, in determinati momenti storici più che in altri, la potenza delle immagini delle corse a tappe riportate con trasporto emotivo e intellettuale dai suiveurs di giornali grandi e piccoli abbia sposato pienamente le esigenze narrative dei Paesi che ne venivano attraversati. La necessità italiana di ricostruirsi e di riunificarsi durante il secondo dopoguerra, per esempio, si alimentò convintamente dei racconti dei Giri d’Italia di Coppi e Bartali. L’epoca d’oro della bicicletta italiana instaurò un legame peculiare tra il ciclismo e la penisola, tra lo sport inventato prima dai giornalisti che dagli sportivi e la nazione immaginata prima dai letterati che dai sovrani. “In Italia la bicicletta appartiene a pieno titolo al patrimonio artistico nazionale, esattamente come la Gioconda di Leonardo, la cupola di San Pietro o la Divina Commedia”, scrisse Curzio Malaparte. “Ci si stupisce che non sia stata inventata da Botticelli, Michelangelo o Raffaello”.