E per quanto riguarda la tecnica, invece, si può allenare o è una dote innata?
«Sicuramente è una dote che uno ha sin da piccolo. Uno poco portato, se si allena può diventare meno scarso; uno bravo può diventare bravissimo. Ma uno scarso non potrà mai diventare bravissimo. Per fare un paragone elementare, scendere in bicicletta è come parcheggiare un’automobile: c’è chi ha bisogno di fare 3 manovre per sistemarla bene e chi invece fa il parcheggio perfetto al primo tentativo».
Cosa si può fare per migliorare la propria tecnica?
«Riguardo la tecnica di guida: imparare a utilizzare sempre tutta la strada a disposizione. Riguardo l’aspetto mentale: allenarsi ad essere freddi e a prendere decisioni in poche frazioni di secondo».
Quando ti sei reso conto di essere particolarmente dotato in questa specialità?
«Ero un ragazzino. All’epoca non c’era la PlayStation, e il passatempo preferito da me e i miei amici era la BMX, andavamo sui sentieri nelle alture sopra Bergamo. In fondo alle discese mi toccava aspettare sempre tutti. Una volta in particolare li superai così veloce che una volta arrivati a valle mi dissero: “Te devi essere matto”. Ma a me veniva naturale».
La discesa del Fauniera al Giro del 1999 ha segnato la tua carriera e ti ha lasciato in eredità un soprannome: il Falco. A distanza di quasi 20 anni, cosa ricordi del momento in cui decidesti di attaccare?
«Di quella tappa ricordo tutto molto bene. Il giorno prima era stato riposo, io ne avevo approfittato per andare a visionare la discesa e mi ero accorto che era perfetta per le mie caratteristiche: c’erano tanti tornanti e soprattutto tante semicurve da cui poter uscire molto veloce. Feci piazzare un membro della mia squadra a 500 metri dalla vetta, cosicché potesse passarmi il caschetto, che all’epoca non era obbligatorio.
Lo indossai e mi lanciai giù talmente forte che per ben tre volte sentii entrambe le ruote scivolarmi via, che è qualcosa che accade quando entri nelle curve troppo veloce. Raggiunsi Pantani, che in cima era passato con 2 minuti di vantaggio su di me, e mi preparai ai tre tornanti che ricordavo meglio di tutta la discesa. Dovevo imboccarli in testa e farli a tutta, se volevo fare ulteriore differenza quello era il punto. Li feci alla grande, e sul rettilineo successivo pensai: “È impossibile che qualcuno sia rimasto alla mia ruota”. Vinsi la paura di girarmi, mi voltai e in effetti dietro non c’era nessuno».
Come descriveresti, nel modo più semplice possibile, la tua tecnica di discesa?
«In un aggettivo, ero bilanciato. Spostavo il sedere dietro e mi accartocciavo sulla bicicletta, con le spalle e il corpo vicini al manubrio, ma non così troppo in avanti da sbilanciare troppo il peso. Il mio segreto era disegnare le linee senza correggerle: se in una curva arrivavo a 3 centimetri dal bordo strada non era mai perché ero arrivato lungo, ma perché avevo scelto di fare quella curva esattamente così».
È cambiato il modo di affrontare le discese rispetto agli anni in cui correvi tu?
«Quello che è cambiato più che altro è che oggi raramente si ritrovano grandi qualità da discesista in un corridore che compete per la classifica generale di un grande giro».
Chi, tra i corridori in attività, si avvicina di più al tuo ideale di stile ed efficacia in discesa?
«Ci sono ancora diversi specialisti in gruppo, penso ad esempio a Peter Sagan, il problema è che raramente li vedi davanti durante i tapponi di montagna».
Si può dire quindi che non c’è un nuovo Paolo Savoldelli?
«Beh, diciamo che non vedo nessuno che fa quello che facevo io, questo sì».