La 18a tappa del Giro arriva dove il ciclismo incontra la meraviglia delle Dolomiti, e non si riesce a dire cosa esalti cosa, se sono le biciclette ad aggiungere colore e movimento alle cartoline dei monti pallidi o se invece sono le cime dentate delle montagne più belle del mondo a consegnare al Giro d’Italia lo scenario migliore che si possa immaginare. Le Dolomiti sembrano fatte per accogliere i ciclisti: offrono allo sguardo di chi fatica un appiglio di bellezza e maestosità. Le biciclette, d’altra parte, sembrano fatte per la montagna: si arrampicano fin dove la strada lo consente e anche oltre, oltrepassano il verde dei boschi e s’inoltrano laddove la roccia è troppo ruvida per essere colonizzata dalla vita e resta nuda, e riflette la luce del sole come uno specchio. La tappa è luminosa e corta, si parte all’ora di pranzo: sono solo 130 chilometri, ma 5 salite. La prima è il Pordoi, e il Pordoi è il centro delle Dolomiti e del ciclismo.
Il Giro lo affrontò per la prima volta nel 1940, all’epoca correvano Bartali e Coppi, e correvano nella stessa squadra. Sul Pordoi nevicava, quel giorno, e il giovane Coppi non era in una buona giornata, così Bartali per pungolarlo gli strofinò della neve sul collo, poi lo guidò attraverso le Dolomiti. A Ortisei vinse lui, ma il Giro sarebbe stato di Coppi. Settantasette anni dopo, il Pordoi è lo stesso gigante di sempre, con le curve e i ruscelli, i sentieri e i baratri; non fa più la differenza come allora, è un antipasto più che un piatto forte, ma qualcuno ancora lo teme.
Lo temono i tifosi, che arrivano in bici e proseguono a piedi, si tolgono le magliette e si sdraiano sui prati. Lo temono gli ultimi della classifica, che si staccano presto, buttano via le borracce piene pur di alleggerirsi un poco, poi si danno una mano e vicenda e sperano di arrivare entro il tempo massimo. Lo temono i gregari, temono che arrivi l’ordine dal capitano: “Avanti, a tirare”, e allora i gregari si sbottonano le divise e respirano con le bocche. Si mettono l’animo in pace: il Pordoi è solo l’inizio. Sul Pordoi del Giro 100 tocca a Diego Rosa, e Rosa è un gregario e non fa una grinza: avanti, a tirare, capitan Landa oggi sta bene. Poi il Pordoi finisce e comincia il Valparola, e Rosa è sempre avanti a tirare, ed è avanti a tirare anche quando finisce il Valparola e comincia il Gardena, e pure quando finisce il Gardena e comincia il Pinei. A metà Pinei Rosa si stacca, non ce la fa più. Lascia Landa in testa, spera di rivederlo a sera, direttamente in albergo, significherebbe che il capitano ha vinto la tappa e ha passato un sacco di tempo con le tv e i giornali, e tutto il gregariato su e giù per la Val di Fassa ha avuto un senso. Invece Landa perde, si fa superare all’ultima curva da Van Garderen. Il ciclismo è fatto di ore e ore di fatica perse nell’aria sottile della montagna.
Il ciclismo è fatto anche di calcoli e tattica, e per questo i grandi della classifica nel finale si controllano, osservano le case dipinte di Ortisei, litigano e infine rimandano la resa di conti alle ultime due tappe in salita, perché per andare forte in salita occorrono cuore saldo e pelle dura, ma soprattutto gambe molto cariche, e quelle mica te le senti tutti i giorni.